art
QUEL PAZZO PAZZO MONDO DI ENRICO T. DE PARIS (DI A. RIVA)
19/04/2012
A sentir parlare di "contaminazione", oggi, verrebbe voglia (per parafrasare una celebre allocuzione di un tipaccio non troppo raccomandabile) di metter mano alla pistola. Troppo è l’uso che se ne è fatto nei passati anni Novanta, e tanto la parola ha avuto, com’è giusto per qualsiasi concetto di cui si sia abusato, un effetto di scontata sovraesposizione.
Eppure.
Eppure Enrico T. De Paris sulla contaminazione lavora ormai da molti anni, e con estremo rigore, verrebbe da dire "scientifico", tanta è la foga e la capacità analitica (e a tratti volutamente straripante e verbalmente prolissa) di mescolare nelle sue folli opere: gioco, tecnologia, filosofia, immagine, parola, comunicazione e quant’altro la sua mente voglia e senta il bisogno di eruttare nel momento dell’ideazione e della creazione di una singola opera, se così si può chiamare la creazione di questo meta-artista.
Enrico De Paris è, infatti, un grande giocoliere dell’immagine e delle idee, un creatore di calembour visivi e concettuali che si rincorrono tra loro senza alcuna tregua, un comunicatore appassionato e inconcludente di teorie impossibili da comunicare, un tecnico coscienzioso e pignolo all’inverosimile che tuttavia, anziché andare ad aggiustare circuiti elettrici, si trovi improvvisamente, quasi senza accorgersene, a girare per il mondo a provocar cortocuircuiti di calviniana memoria.
Questo è de Paris, e di questo ci parla tutta la sua opera. Enrico De Paris non lavora, infatti, come molti altri artisti suoi coetanei e non, per cicli o per lavori distinti: De Paris è come uno scrittore che da sempre lavori a un unico, immenso romanzo (come la "Commedia Umana" di Balzac), e di quel romanzo ci centellinasse ogni tanto, quando capita, un assaggio, una pagina, un rigo appena, da farci gustare e assaporare per farci venir voglia di vedere un giorno l’opera completa pubblicata tutta insieme, come accadeva ai fortunati che, trovandosi ad ascoltare, in qualche salotto, le pagine della Recherche dalla bocca del suo autore, aspettavano, con un po’ di suspence e non senza un filo d’inquietudine, di poterne leggere lo svolgimento intero. Anche il suo stile, del resto, è quello del più puro Proust, contorto, magmatico e allo stesso tempo cristallino come pochi altri, ma in fondo è anche quello del grande feuilletton ottocentesco, un feuilletton impazzito che sia stato improvvisamente sottoposto alla spietata legge del cut-up di derivazione burroughsiana, dove i personaggi si siano tutti confusi tra di loro, le loro voci si siano sovrapposte come quelle dei cori greci fino a creare un assurdo e buñueliano cicaleccio incomprensibile, i colori impastati in un unico grande caleidoscopio pulsante di vita e di umori e di geometrie frattali impossibili da decodificare, i nomi e le parole esplosi in mille dialetti e lingue e fonemi incomprensibili, come in un folle ed esilarante circo equestre del futuro. Non per questo, il lavoro di De Paris si esime però dal trattare temi per così dire filosoficamente "pesanti": anzi.
Il suo è un lavoro che, come pochi altri, affonda le radici in molti dei temi al centro del dibattito contemporaneo, dalla bioetica alla globalizzazione alla multiculturalità, nel tentativo, tanto generoso quanto in fondo folle, di percepire la realtà come un incrocio di realtà, di culture e di stimoli differenti e incrociati, uno strano e bizzarro mosaico di "mezze realtà", come ha scritto l’artista stesso, nel tentativo di "percepire varie dimensioni come un multiuniverso" e di rendere l'idea della complessità, attraverso il linguaggio adottato come attraverso la percezione immediata del lavoro nel suo insieme, come l’elemento fondante, e forse primario, della contemporaneità.
La mostra che Enrico T. De Paris presenta a Bruxelles non è che l’ennesima tappa di questo folle e inestricabile percorso, con le sue pause, i suoi eccessi, i suoi grovigli di esperienze e di linguaggi differenti, i suoi assoli roboanti e follemente musicali, le sue buffe personcine che si affannano a rincorrersi in strane ampolle di vetro credendo che la loro vita, le loro paure, i loro piccoli dubbi siano più importanti di quelli che si agitano, uguali ai loro ma ben distinti gli uni dagli altri, in tutto il resto del globo e del pianeta.
E noi lasciamoglielo credere, dal momento che sappiamo che anche noi, come loro, viviamo in una buffa ampolla di vetro, e anche noi ci affanniamo, come loro, a rincorrerci a vicenda e a soffrire e a vivere istanti di inappagabili felicità nelle nostre piccole ampolle, indifferenti al fatto che altrove, in altre ampolle, esistono altri omini simili a noi, che parlano altre lingue, altri idiomi, altri dialetti di questo magmatico, vasto e intricato luogo che si chiama universo, ognuno aspirando a qualche impossibile immortalità e ognuno sapendo, nel fondo del proprio animo, l’inutilità e la vacuità dei propri sforzi.